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A Lodi, l’omicidio di Sergio Ramelli tra storia e memoria

Aprile 30, 20250

 

La formula della presentazione di “Il tempo delle chiavi” mi ha costretto, come può accadere, a sintetizzare il mio intervento. Questo il testo integrale:


Sergio Ramelli era nato nel 1956, dunque era poco più giovane di me. Oggi avrebbe 69 anni. Probabilmente
avrebbe fatto una vita normale. Non è detto che avrebbe scelto di continuare a impegnarsi in politica, o forse sì. In ogni caso, probabilmente si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei figli e magari sarebbe nonno. Ma sono queste sono solo ipotesi. Parlarne mi mette onestamente un po’ di tristezza. Quando Lorenzo Maggi mi ha chiesto cortesemente la disponibilità di presentare questo libro ho subito accettato, d’istinto. Poi ho un po’ riflettuto e stavo per chiamarmi fuori, per rinunciare.

È vero che mi occupo di storia contemporanea e mi sono occupato anche di storia della destra. Ma qui si tratta di parlare della morte – esattamente mezzo secolo fa – di un ragazzo assassinato da militanti di Avanguardia Operaia. Di un ragazzo che avrei potuto conoscere e del clima sociale e politico in cui quel ragazzo è stato assassinato. E vi dico la verità, non è facile. Perché da sempre sono convinto che storia e memoria sono cose diverse. Ma, in questo caso, è fatale che storia e memoria si confondano. Consapevole del rischio, me ne assumo la responsabilità, non solo per cortesia o per l’amicizia e la stima che mi lega al collega Nicola Rao. Mi sono detto che ne valeva la pena.

Quando il libro è uscito l’ho subito letto e apprezzato. Conoscendo i sui precedenti lavori, non mi aspettavo qualcosa di diverso. Rao ha affrontato un tema molto delicato, quella stagione dell’intolleranza – come opportunamente l’ha definita – che ha saputo ricostruire senza enfasi, con precisione e pacatezza, rendendo un servizio alla storia. Perché di storia si tratta, non di polemica politica fuori del tempo. Una storia che riguarda tutti, non una parte. E lo ringrazio per aver scelto – da giornalista – il taglio storiografico. Di questo, mezzo secolo dopo, abbiamo bisogno.

La memoria di quei tempi, in fondo, riguarda me e i miei coetanei. Cioè la generazione che è stata giovane a cavallo del 1970 e che in quel contesto ha scelto di non stare a guardare e di occuparsi di politica. Una scelta che ho fatto anche io.

Era l’inizio del 1969. Il 19 gennaio, a Praga, Jan Palach si trasformò in torcia umana per denunciare l’invasione sovietica della sua Patria. Così diventai anticomunista e di destra, che non era certo la scelta più diffusa tra gli studenti dopo le mobilitazioni sessantottine. Qualche mese dopo mi iscrissi a Roma all’organizzazione giovanile missina, che ancora non si chiamava Fronte della Gioventù, ma Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori. È fatale che, leggendo Il tempo delle chiavi, a un ex studente della mia generazione si accapponi la pelle. Affiorano i ricordi di una stagione infame. Una stagione che avremmo preferito vivere come adolescenti felici. Non fu esattamente così.

Talvolta mi chiedo perché la memoria di Sergio Ramelli sia più diffusa di quella di altre vittime di quegli anni infami. Penso che derivi essenzialmente dalla sua lunga tragica agonia. Per 47 giorni abbiamo sperato invano che ce la facesse. Due settimane prima di quel 13 marzo, a Roma, il 28 febbraio, era stato ucciso lo studente greco Miki Mantakas, militante della sezione missina di via Ottaviano. All’epoca non c’erano i telefonini, il passa parola era molto artigianale. Si era diffuso l’allarme per un assalto alla sede. Accorremmo, ma Mantakas era morto.

Non amo i martirologi. E neppure il reducismo. Ma non posso dimenticare l’angoscia che ci colpì, nel luglio del 1972, alla notizia dell’assassinio, a Salerno, di Carlo Falvella. E come potrei dimenticare i funerali di Virgilio e Stefano Mattei, bruciati vivi nell’aprile del 1973? Peraltro, da qualche mese ero pendolare con Asti e saltai su un treno notturno per essere presente. Ad Asti, per dire, dove un colpo di pistola fu sparato contro la sede missina dove tiravamo al ciclostile il nostro giornaletto.


Che il clima di Milano fosse peggiore di quello romano, esattamente come denunciato dall’inascoltato prefetto Libero Mazza, che aveva fatto la Resistenza a Firenze. Secretato, il suo veritiero rapporto uscì nel 1971. “L’Unità lo bollò come «uno pseudo rapporto nel quale si farneticava di fantomatiche organizzazioni paramilitari di sinistra». Eugenio Scalfari, all’epoca deputato socialista, dichiarò che il prefetto era «uno sciocco, che non capisce quanto accade, o un fazioso che non vuole capire». Libero Mazza fu difeso solo il vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno, anche lui partigiano, che nel 1977 fu giustiziato dalle Brigate Rosse.

Che a Milano il clima fosse diverso noi romani ce ne eravamo accorti l’11 marzo 1972. Qualche settimana fa me lo ha ricordato un amico che non vedevo da anni.Come stai vecchio mio? Ti ricordi quella volta? Ti ho guardato negli occhi e ho avuto paura. Poco più giovane di me, mi stimava troppo. Anche io avevo paura. Eravamo in trasferta per il comizio elettorale di Almirante in piazza Castello. Non fummo accolti con simpatia, per così dire.

Sono stati anni bui e di dolore. L’assassinio di Sergio Ramelli non si può isolare dal contesto dell’Italia di quell’epoca, che poi sarà chiamata degli anni di piombo. Di piombo e tritolo, direi. Venivamo dalla strage di piazza Fontana, dicembre 1969. Nel 1970 viene ucciso a Genova l’operaio missino Ugo Venturini. Nel marzo del 1972 muore Giangiacomo Feltrinelli, che stava facendo un attentato a un traliccio. A maggio fu assassinato il commissario Luigi Calabresi.

“Il Cittadino”, 28 aprile 2025

Nel 1973, a Torino viene sequestrato dalle Brigate Rosse il sindacalista della Cisnal Bruno Labate. Poi il giovedì nero di Milano con l’omicidio dell’agente Antonio Marino, e la strage della Questura. A dicembre la strage di Fiumicino. Nell’aprile del 1974 le Brigate Rosse rapiscono Mario Sossi. Quelle Brigate Rosse che per il Partito Comunista e per gran parte della stampa erano ancora solo “sedicenti”, come se fossero uno strumento della strategia della tensione. Piuttosto, giorni fa è morto Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Mi viene difficile esserne addolorato. Nel maggio del 1974 la strage di Piazza della Loggia. Il 17 giugno, a Padova, un commando delle Brigate Rosse uccidono i missini Giuseppe Mazzola è Graziano Giralucci. Ad agosto la strage dell’Italicus.

Queste date, questi nomi, queste tragedie elencate un po’ alla rinfusa, senza pretesa di completezza, per ricordare il clima di terrore diffuso nel quale per anni siamo vissuti. Tutti gli italiani, in verità, non solo i militanti politici di ogni colore.

Ma veniamo al clima del 1975. Ancora a Roma. Tornavo dal servizio militare. 14 febbraio, elezioni universitarie alla Sapienza. L’allora giovane cronista del Corriere della Sera Antonio Padellaro registrò che <un dato rilevante, estremamente negativo di queste elezioni è costituito dalla violenza intimidatrice messa in atto da alcuni gruppi dell’ultrasinistra. Anche oggi all’Università di Roma si sono contate numerose aggressioni di studenti, quasi tutti di estrema destra>. Se ne sei stato vittima te lo ricordi bene. E pensi di essere stato molto fortunato. Perché a Roma di norma si usavano essenzialmente i bastoni, i manici di piccone, non le Hazet 36.

Questa è memoria. La mia memoria. Una memoria di parte. Una delle tante possibili. Ma era per me inevitabile ripensare che avrei potuto essere Sergio Ramelli. La memoria non si cancella, ma non basta per spiegare. Per fortuna, intorno alla morte di quel ragazzo Nicola Rao ricostruisce con accuratezza il clima di quegli anni. Lo fa sine ira et studio, con il distacco giornalistico che ha sempre caratterizzato i suoi importanti lavori sulla storia della destra italiana.

E lo fa ascoltando i testimoni, rileggendo le cronache, portando alla luce sbiaditi documenti scolastici e dibattiti politici, scavando nelle carte processuali, inquadrando i fatti nel contesto storico, italiano e internazionale. Senza cedere alla tentazione di descrivere i giovani di destra di allora solo come vittime e i giovani di sinistra solo come colpevoli.

Ci sono, sì, vittime e colpevoli. Ma il quadro generale è più complesso. E in quel quadro si collocano sia le vittime sia i colpevoli. Tutti. Perché in quegli anni, ricorda Rao, concordando con l’ex militante milanese di Lotta Continua Mario Ferrandi, <la violenza gratuita e indiscriminata non fu di una sola parte. Furono molte le aggressioni violente da parte di militanti neofascisti (soprattutto dei sambabilini ma non solo) verso avversari politici reali o ipotetici>.

Se una differenza c’è tra le fazioni riguarda i numeri, a Milano certamente, ma ovunque. I numeri e la capacità operativa. Le organizzazioni extraparlamentari di sinistra erano numerose, talvolta l’una contro l’altra armate, e contavano su una militanza molto superiore a quella sia del Fronte della Gioventù missino sia degli extraparlamentari di estrema destra, essenzialmente Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, con le loro mutevoli denominazioni.

Approssimativamente, senza includere la Fgci, a sinistra operavano Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio, il Movimento Studentesco con i suoi Katanga, Autonomia Operaia, con decine di migliaia di militanti, presenti e organizzati nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche. Tutti questi soggetti sono protagonisti di quella che Nicola Rao definisce, appunto, <stagione dell’intolleranza>. Armata. Non solo delle chiavi inglesi evocate nel titolo perché il mezzo metro e i tre chili della Hazet 36 furono lo strumento più diffuso a sinistra per gli agguati contro “nemici” isolati, almeno a Milano.

Di un cucchino pagò il prezzo più alto Sergio Ramelli, studente dell’Istituto tecnico industriale Ettore Molinari.  Uno dei pochi “di destra”. Aveva scritto un tema sulle Brigate Rosse. Fu costretto a lasciare quella scuola e a rifugiarsi in un istituto privato. Il collegio dei docenti non riuscì a tutelare il suo diritto allo studio. Meglio che se ne vada, meno problemi. E se n’era andato quando la “spedizione punitiva” lo portò alla morte. Nicola Rao, con le testimonianze e i documenti raccolti, ricostruisce nel dettaglio i fatti e le reazioni. In un clima da guerra civile permanente nel nome di un antifascismo antistorico.

Quando, il 13 marzo, il consigliere comunale missino Tomaso Staiti interviene a Palazzo Marino per dare notizia dell’agguato, dal pubblico scattano gli applausi e si urla “Bene”, “Evviva”. Il sindaco socialista Aldo Aniasi – come risulta dal verbale della seduta – è costretto a intervenire: <richiama il pubblico a non dare segni di intolleranza e affermando di credere che nessuno possa applaudire ad atti di violenza e di criminalità dal momento che la causa dell’antifascismo si difende in tutt’altro modo>.

Il 29 aprile quella di Aniasi, nel silenzio generale, sarà una dura condanna: <Non vi sono giustificazioni o attenuanti, né vi possono essere comprensioni di sorta per chi spara, chi usa spranghe, chiavi inglesi, bastoni, catene per colpire gli inermi. Questi sono atti contro la democrazia, non importa chi li compia. Sono atti contro la morale, sono comportamenti vili perché prendono di mira gli inermi. Alla famiglia dello studente deceduto ho fatto pervenire le condoglianze di Consiglio comunale>. Silenzio.

La condanna viene anche dal quotidiano del Pci L’Unità, che definisce l’aggressione <una violenza cieca e compiaciuta>. Arturo Carlo Jemolo, su La Stampa invita a non <accettare una qualunque attenuante con motivazione politica. I delitti di strage, gli assassini restano tali, quali che siano i principi che si vogliano invocare>. Ma non manca di sottolineare che il Pci ha allontanato i violenti, al contrario – a suo parere – del Msi-Dn.

Imbarazzanti, dieci anni dopo, nel 1985, quando gli assassinidi Avanguardia Operaia vengono finalmente individuati, per essere poi, nel 1987, processati e condannati, i commenti di fior di intellettuali, da Rossana Rossanda a Paolo Hutter, da Ludovico Geymonat a Franco Fortini. E anche Aniasi si lascia andare con un <La storia non la scrivono i giudici>. Inquietante. Si distingue Miriam Mafai: <Ramelli non è stato un errore, ma un delitto>.

Voglio pensare che tanti, oggi, siano capaci di riconoscere con onestà che fu un efferato barbaro delitto.

“Il Cittadino”, 30/4/2025

Tra le testimonianze raccolte da Nicola Rao, particolarmente significativa è quella del presidente del Senato Ignazio La Russa, all’epoca segretario del Fdg milanese, poi segretario provinciale del Msi-Dn e avvocato della famiglia Ramelli. Testimonianza importante non solo per i ricordi di quei giorni. Soprattutto per le sue considerazioni di oggi: <Da molti anni ho preso le distanze da certe celebrazioni di Sergio. A un certo punto, impedisco ai ragazzi del Fronte della Gioventù di partecipare all’organizzazione […]. Perché più passano gli anni e più si tende a rinchiudere Sergio in una bolla di estrema destra che è semplicemente una falsificazione storica. […] la cosa importante da dire e far capire a tutti è che Sergio era un ragazzo del Fronte della Gioventù, io l’ho conosciuto e so come la pensava: non era un estremista, non era un extraparlamentare, come si diceva una volta. Non era un violento. Non era un picchiatore. Non era uno che rifiutava il dialogo. Era un anticomunista di destra. Era un ragazzo di destra. E così andrebbe ricordato. Per quello che è stato, non per quello che non è mai stato>.

Condivido questo modo di pensare. Ricordiamo il sacrificio di Sergio Ramelli per quel che lui è stato. Non per come è stato dipinto.

Concludo tornando alla differenza tra memoria e storia. La memoria è personale, privata. Si può sperare di essere oggettivi. Ma è un’illusione. Ciascuno ha la sua. Solo il confronto tra le memorie può servire per integrare la storia, che si basa anche sulle memorie, ma essenzialmente sulle testimonianze certificate, affidabili, sui documenti, sulle carte, sugli archivi. Questo libro ne è la prova.

Mezzo secolo dopo non si tratta di recriminare, di rimpiangere quello che poteva essere e non è stato. Ciascun attore – piccolo o grande – è responsabile di una quota di quel clima.  Il mondo è cambiato, la società è cambiata, affronta problemi diversi. I dissensi attuali si basano su diverse categorie, culturali e politiche, anche se a volte sembra di vivere nel passato che non passa. Penso all’antisemitismo che riaffiora, alla retorica antifascista ottant’anni dopo la morte del fascismo.

Dovremmo finalmente imparare che il passato va storicizzato, con onestà intellettuale, perché le generazioni future possano comprenderlo per quel che è stato, senza trasfigurarlo. Nel segno di una verità condivisa, non ad uso delle fazioni.

 

 

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