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L’America, la guerra e l’odio di sé

Maggio 2, 2022

Più passano i giorni più sembra allontanarsi la fine del tunnel. Che in Europa e in Italia cresca la preoccupazione è inevitabile. Cominciano così a circolare con insistenza dubbi sulla necessità di continuare a sostenere l’Ucraina. Meglio sarebbe – è ovvio – una pace immediata, prendendo atto che i territori ucraini occupati sono ormai perduti e che tra Kiev e Mosca i confini sono cambiati. L’Ucraina avrà pure ragione, ma non possiamo morire per il Donbass. Né per Biden, visto che il presidente americano sembra non avere – per ora – alcuna intenzione di accettare compromessi. Tanto più che il prezzo della guerra lo pagano più gli europei degli americani. E degli americani siamo sì alleati – per fortuna – ma non dobbiamo esserne sudditi. Quindi dovremmo trovare il modo, da europei, di trovare una via d’uscita diplomatica – una sorta di “pace separata” – senza accettare supinamente il bellicismo della Casa Bianca.

Il ragionamento non fa una piega. Anzi, è auspicabile che questa via possa essere al più presto trovata, convincendo anche Biden. Non è tuttavia così facile. E non perché Biden ami la guerra. Molto più tragicamente perché l’Europa occidentale non è riuscita, né dopo la seconda guerra mondiale, né dopo l’implosione dell’impero sovietico, a essere – per sommatoria – qualcosa di più di una potenza economica. L’Europa non è un soggetto politico e tanto meno un soggetto militare. Rinunciò a esserlo fin dalla nascita, quando il parlamento di una Francia appena sconfitta in Indocina votò – il 30 agosto 1954 – contro la creazione della CED, la immaginata Comunità Europea di Difesa. Sarebbe stata necessaria. Ma il progetto è rimasto sospeso… Tra un allargamento e l’altro, l’Europa è rimasta monca ed è una pia illusione che al suo interno si sia creata una forte solidarietà. O abbiamo già dimenticato l’atteggiamento dei paesi “frugali” sul recovery fund in piena pandemia? Forse la guerra russo-ucraina potrebbe cambiare le cose, ma non sarà certo una svolta rapida. Per ora riaffiora insistente l’antiamericanismo ideologico, lascito dell’interminabile Novecento. In Europa, e negli stessi Stati Uniti. Ma non è una sorpresa.
Il ruolo di capofila di questo antiamericanismo americano sembra esserselo ritagliato l’economista Jeffrey Sachs, direttore dello Earth Institute della Columbia University, dal 2021 membro dell’Accademia Pontificia, e non dimenticato consigliere economico del Cremlino con Gorbaciov ed Eltsin, senza ottenere grandi risultati, in verità, nel tentativo di salvare la Russia dal tracollo economico. Ora Sachs predica la via diplomatica, lamentando che il suo paese non voglia in realtà percorrerla e che, in realtà, la crisi è responsabilità americana. <La Russia ha iniziato questa guerra, certo – ha ammesso con il “Corriere della Sera” -, ma in buona parte perché ha visto gli Stati Uniti entrare in modo irreversibile in Ucraina>. <Gli Stati Uniti – spiega – vogliono un’Ucraina nel campo euro-americano, in termini militari, politici ed economici. Qui si trova la ragione principale di questa guerra. Gli Stati Uniti non hanno mostrato un segno di compromesso, né prima né prima che la guerra scoppiasse, né dopo>. La colpa è dunque dell’America. Come sempre, secondo l’economista di scuola keynesiana. Perché quel che accade oggi altro non è che il frutto della <tipica arroganza statunitense>. D’altra parte <Gli Stati Uniti sono stati anche coinvolti in innumerevoli avventure irresponsabili: Vietnam, Laos, Cambogia, Afghanistan, Iran (golpe e dittatura del 1953), Cile, Iraq, Siria, Libia, Yemen. Questo solo per citarne alcune, perché ce ne sarebbero molte altre. Eppure gli Stati Uniti non sono stati banditi in permanenza dalla comunità delle nazioni. Neanche la Russia dovrebbe esserlo. Invece gli Stati Uniti parlano di isolare la Russia in permanenza>. Tanto per chiarire meglio la sua posizione, ha aggiunto che non intende <scaglionare Putin>, ma <Se vogliono processare Putin per crimini di guerra, allora devono aggiungere alla lista degli imputati George W. Bush e Richard Cheney per l’Iraq, Barack Obama per la Siria e la Libia, Joe Biden per aver sequestrato le riserve in valuta estera di Kabul, alimentando così la fame in Afghanistan. E l’elenco non finisce qui>. Sembra un Orsini qualsiasi… O l’uno la controfigura dell’altro.


C’è storicamente del vero nelle parole di Sachs. Il quale tuttavia fa finta di dimenticare che gli Stati Uniti non entrarono volentieri nella Grande Guerra che dilaniava l’Europa degli Imperi. Né si sbracciarono per entrare nella seconda. Nel 1941, quando tutto era già in essere, a New York si manifestava contro il possibile coinvolgimento americano. Bravi cittadini sfilavano con gli slogan <Hitler non ci ha attaccato, perché lo attacchiamo?>, <Perché non la pace con Hitler?>, <Europa agli europei, America agli americani>. Fatti vostri, insomma, cari europei, sbrigatela da soli. Poi, il 7 dicembre, ci fu Pearl Harbor. L’isolazionismo americano ha una lunga storia. Come gli errori commessi dagli Stati Uniti nel gestire le crisi. Gli Usa hanno però un vantaggio: il culto della totale libertà di pensiero. Così può accadere che un altro economista liberal – per di più premio Nobel – Paul Krugman, scriva sul “New York Times” opinioni opposte a quelle del collega Sachs, arrivando a definire il suo paese un arsenale di democrazia. <L’America – sostiene -, seppure non direttamente impegnata in combattimento, sta facendo di nuovo ciò che fece l’anno prima di Pearl Harbor: noi, con l’aiuto dei nostri alleati, fungiamo da “arsenale della democrazia” e offriamo a chi difende la libertà quello che occorre per continuare a combattere. Per quanti non sono a conoscenza di ciò, è bene ricordare che nel 1940 la Gran Bretagna, come l’Ucraina nel 2022, ebbe un successo inatteso contro un nemico apparentemente inarrestabile quando la Royal Air Force sventò il tentativo della Luftwaffe di conquistare la superiorità aerea, un prerequisito fondamentale in vista di un’invasione>.

Pur perfettamente consapevole degli errori che gli Stati Uniti commettono, ma anche degli errori italiani, francesi, inglesi, e non solo, credo che la posizione di Krugman sia la più corretta, in questo momento. Mentre quella di Sachs riflette una notissima e persistente caratteristica psicologica di un certo mondo intellettuale americano, quella dell’odio si sé. Della quale, peraltro, anche una certa Europa non è esente. E neppure la nostra Italia. Dove può accadere che Rete 4 conceda al ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, uno spazio di pura propaganda. Nel quale Lavrov ha potuto sostenere senza contraddittorio anche che la Russia ha sempre lavorato per ridurre al minimo la possibilità di una guerra nucleare e che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sia portatore di idee antisemite e naziste, nonostante sia ebreo: «Ma questo non significa niente, anche Hitler», ha detto Lavrov, «aveva origini ebraiche». Rilanciando cioè la favola della presunta nonna ebrea del Führer. La nonna ebrea di Hitler non è mai esistita ma, se lo fosse, avrebbe testimoniato un tipico caso di odio di sé.
Peraltro, mentre si avvicina la data del 9 maggio, quando l’Unione Sovietica accettò la resa incondizionata di quel che restava del Terzo Reich sconfitto, il nazismo a Mosca sembra diventata un’ossessione. <Zelensky – dice Lavrov – può promuovere la pace: basterebbe che smettesse di dare ordini criminali alle sue truppe naziste>. Non dev’essere un caso che i servizi segreti russi abbiano pubblicato in questi giorni gli atti dell’interrogatorio – conservati da 77 anni negli archivi dell’ex Kgb – del pilota personale di Hitler, Hans Baur, unico testimone attendibile del suicidio del Führer e di Eva Braun nel bunker di Berlino, il 30 aprile 1945. Come dire: ricordatevi che siamo arrivati prima noi.

A Mosca la storia non passa. Tutto quello che è accaduto dopo nell’impero sovietico non conta. Né conta che la libertà di pensiero sia da quelle parti ancora considerata un reato. Come del Reich che per fortuna non fu millenario. In Italia può accadere che Lavrov faccia un comizio in televisione. In Russia un comizio televisivo del segretario di Stato Tony Blinken è un po’ meno probabile. In Italia si può liberamente discutere sull’opportunità dell’iniziativa di Rete 4. Paradossale, se si pensa che l’agenzia ufficiale cinese Xinhua il 30 aprile ha diffuso, a distanza di un’ora una dall’altra, prima un’intervista a Lavrov e poi una al ministro degli Esteri ucraino Dmitry Kuleba. Una sorta di par condicio alla mandarina che deve far riflettere molto sul clima politico pechinese. Chissà se Rete 4 saprà imitare la Xinhua. Certo nessuno, in una democrazia, può costringerla. Né qualcuno oggi, in America – che pure ha avuto il maccartismo – può denunciare Jeffrey Sachs per intelligenza con il nemico. La differenza tra democrazie e dittature, in fondo, è tutta qui.