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Venga avanti, dotto’

Ottobre 7, 20230

Venga avanti, dotto’. I romani conoscono perfettamente l’invito del parcheggiatore abusivo. Ma anche del barista, dell’artigiano, del bancarellaro, del barbiere. Al femminile si declina dottore’. A Roma chiunque sia vestito in giacca e cravatta, o comunque “bene”, automaticamente viene qualificato come dottore. Non è una presa in giro. È una formula popolare stereotipata per ingraziarsi i clienti. Talvolta si usa anche la formula signo’, ma è meno diffusa, e vale sia al maschile sia al femminile. Signore nel senso di persona rispettabile, borghese, che in ogni caso ha dimostrato di pagare regolarmente il conto e di dare la mancia.

Non c’è niente di male. A Roma il barbiere e il barista mi chiamano dotto’, pur non avendo la minima idea se io lo sia o meno, e neppure quale professore eserciti. A Londra sarei solo mister Rossi. Doctor è il medico. E certo non mi offenderei. Né mi offendo se mi chiamano signor Rossi. Se capita, chiarisco che non sono professore, pur essendo docente. Professore è il titolo che spetta ai docenti dei licei, delle università e affini. A chi lo fa per professione, e come tale è incardinato in una istituzione riconosciuta.

Ne deriva che se io pretendessi di farmi chiamare professore, o tollerassi di essere definito pubblicamente tale, sarei soggetto alla sanzione amministrativa per usurpazione di titolo. Per lungo tempo è stato un reato penale. Poi è stato depenalizzato. Penale resta l’esercizio abusivo di professione. Insomma, non puoi dichiararti medico se non sei iscritto all’ordine dei medici. Al massimo sei dottore in medicina. E così non puoi dichiararti avvocato se sei solo dottore in giurisprudenza, o architetto se sei dottore in architettura ma non hai ottenuto l’abilitazione e, dunque, non sei iscritto all’ordire degli architetti. Sembra una banalità burocratica, ma la norma è di garanzia verso i terzi. Il cliente deve essere certo che tu sia abile nella professione che pretendi di esercitare. Vale anche per i giornalisti. Puoi avere quattro lauree o, fino a qualche anno fa, non averne alcuna. Ma se non hai superato l’esame di Stato, non puoi spacciarti per giornalista. Poi, ovviamente, i professionisti abilitati possono essere più o meno bravi, ma questo è noto. Come è noto che un ciarlatano può avere qualche dote.

Voi direte che tutto ciò è risaputo, quindi perché parlarne? Perché, a parte che ogni tanto spunta il caso di un chirurgo con alle spalle tre esami di medicina, da un po’ si discute sulle reali competenze di tale Dario Fabbri, ospite assiduo di alcune trasmissioni e riviste per le sue competenze di analista geopolitico. Qualcuno, pignolo, è andato a controllare. E ha scoperto che non si è mai laureato. E non è neppure giornalista, pur essendo spesso qualificato come tale. Qualcuno lo ha subito difeso, spiegando che non è necessario avere una laurea per essere esperto di geopolitica. Né per essere filosofo. O inventore. O ministro. E giù con gli esempi. Benedetto Croce non era laureato, si sa. Guglielmo Marconi neppure. Ma erano geni, e non gliene importava nulla, né lasciavano circolare curriculum “aggiustati”.

Non so se Dario Fabbri sia competente. Forse lo è più di quello strano soggetto di Alessandro Orsini, che pure è laureato e professore universitario in quella Luiss dove non si è laureato Fabbri. Il punto è che non devi vivere usurpando il titolo che non ti appartiene né tollerare che altri lascino pensare che quel titolo ti spetti.

Ve la ricordate la poesia I limoni di Eugenio Montale? Sarà che l’ho amato tanto, io me la ricordo sempre. Soprattutto le prime righe:

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantanoi ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Ebbene, Montale era diplomato in ragioneria. Non è mai stato dottore. Giornalista sì. Ma noi lo ricordiamo – perché lo è stato – come uno dei grandi poeti del Novecento. Io ho trovato geniale quel “i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”. I nomi che piaceva a Gabriele D’Annunzio, per capirci. Neppure il Vate era laureato. Il titolo gli fu assegnato honoris causa.

Se sei un genio, se sei un poeta, o un imprenditore, non hai bisogno di usurpare il titolo. La grandezza non è data dai titoli.

Enrico Mentana, per difendere il suo assiduo collaboratore, ha confessato di non essere laureato. Una confessione inutile, direi. Tra i colleghi della mia generazione, che è la sua, i laureati sono un’esigua minoranza. Io stesso mi sono laureato per caso. Non ce ne importava nulla della laurea. Molti hanno abbandonato quando mancavano uno o due esami e la tesi. O solo la tesi. Non serviva. Non volevamo essere dottori. Solo giornalisti. E non ci facevamo chiamare dottori, neppure se lo eravamo.

Il caso di Fabbri è diverso. Lui lascia dire. Poi, con Mentana, fonda “Domino”, di cui è direttore editoriale. Direttore responsabile è Mentana, perché Fabbri, non giornalista, non può esserlo, per legge. Se la rivista fosse classificabile come scientifica, potrebbe esserlo. Per questo esiste un elenco speciale presso l’ordine dei giornalisti. Ma Domino non è scientifica.

Nessuno ovviamente costringe Fabbri o chicchessia a essere laureato o giornalista per collaborare a una rivista. Se “Limes” ritiene che sia competente fa bene a utilizzarlo. Non si tratta di metterlo in croce. Si tratta di non far passare l’idea che sia legittimo, normale, presentarsi per quel che non si è. Magari un giorno Fabbri otterrà una laurea honoris causa come D’Annunzio. Benissimo. Auguri. Ma ci si può fidare di uno che è opaco anche su se stesso, come un bambino che ruba le caramelle? E quale messaggio ne deriva per tanti giovani che studiano e si laureano, in un paese che di laureati continua ad averne veramente pochi? Non servono? Basta informarsi sul web? Basta sul serio? Non credo.

Il buon Fabbri, alla fine, ha dovuto ammettere: “Ho studiato scienze politiche alla Luiss (vecchio ordinamento), ma ho abbandonato all’ultimo anno per concentrarmi soltanto sulla geopolitica, sulla struttura degli eventi anziché sulla sovrastruttura, e sulla storia degli altri popoli, dimensione essenziale di ogni ragionamento, che non trovai nel percorso universitario”. Ma che cosa vuol dire? Nulla. Ricordate la supercazzola del conte Mascetti? E il suo: “come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribài con cofandina? Come antifurto, per esempio?”

Al buon Fabbri si può perdonare di essere autodidatta. La storia è piena di autodidatti geniali. Non sì può perdonare l’opacità. La quasi laurea non esiste. Come non esiste il quasi gol. Ma il grande Nicolò Carosio era laureato, in giurisprudenza. Anche se per fare il cronista sportivo non era necessario. Proprio no. E infatti non se ne vantava. A Fabbri resta solo da sperare nel “venga avanti, dottò”.

Ps. Da decenni si discute in Italia sul valore legale del titolo di studio. Il dibattito riemerge in modo ciclico. Trovo che sia stucchevole. Persino negli USA, il paese più liberista del mondo, per fare – per esempio  – l’avvocato, bisogna essere laureati in una università riconosciuta. La laurea non serve, invece, per essere eletti presidenti. I requisiti fondamentali sono solo tre: essere cittadini statunitensi dalla nascita, avere almeno 35 anni, essere stati residenti per almeno 14 anni.

 

 

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