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Margherita, la cultura, il Ventennio…

Agosto 27, 20220

Trovo sempre stimolanti gli interventi di Giampiero Mughini su Dagospia. Non sono mai banali, come mai sono stati banali i suoi libri, che occupano un mezzo scaffale della mia biblioteca, da Compagni, addio (1987) a A via della Mercede c’era un razzista (1990), e poi a seguire…

Dunque lo leggo con piacere, certo di trovare spunti interessanti. Li ho trovati anche nella sua Versione di ieri, 26 agosto, dedicata a come, per l’ennesima volta, il fascismo sia entrato nel dibattito pubblico in campagna elettorale. Forse era scontato che accadesse. Ma certo non è un segnale positivo. Il passato che non passa non aiuta a guardare avanti.

Ha ragione dunque Mughini quando scrive che <indicare al pubblico ludibrio odierni pagliacci e pagliacciate non ci aiuta certo a capirlo quel dannato ventennio, una tragedia drammaticamente seria che è rimasta come impressa sulla carne della nostra storia recente. Dobbiamo fare i conti con il fatto che il fascismo è stato purtroppo un’opzione politica tra quelle possibili nell’Europa martoriata dai quattro anni di massacri che era durata la Prima guerra mondiale. Per niente affatto il fascismo è stato una opzione contro la cultura, il mero trionfo di un’accozzaglia di delinquenti che seppero usare a meraviglia manganello e olio di ricino, e bensì una delle possibilità anche culturali offerte al terrificante garbuglio rappresentato dalla scena europea di quegli anni>.

Le cose stanno esattamente così. Il fascismo è stata una dittatura. Rimpiangerla è da folli. Negare che abbia cancellato la libertà, che abbia voluto le leggi razziali e che abbia precipitato l’Italia nell’abisso lo è altrettanto. Ma descrivere tutti gli italiani di quel ventennio come estranei alla cultura è semplicemente errato. E non ci aiuta a comprendere un tratto non breve e non poco significativo della nostra storia.

Mi torna sempre in mente un paradosso della negazione. È convinzione diffusa che in Italia la televisione sia nata nel gennaio del 1954. Se così fosse, vorrebbe dire che mentre in tutto il mondo sviluppato si studiava la possibilità di utilizzare le onde radio per trasmettere immagini, nella patria di Guglielmo Marconi gli ingegneri erano dei fessi. O che la dittatura comprimesse la ricerca scientifica. In realtà fin dal 1934 si sperimentava. Nel 1939 cominciarono le trasmissioni di Radiovisione, che terminarono il 31 maggio del 1940, perché si temeva che interferissero con la navigazione aerea. Il rischio c’era. Poi, la guerra fermò tutto.

I costosissimi apparecchi si diffusero poco, ma il Radiocorriere segnalava i programmi, e i “televisori” erano presenti nelle vetrine dei negozi del centro di Roma, negli stabilimenti balneari di Ostia, a Villa Torlonia, nei Palazzi Vaticani. Certo, Mussolini non capì le potenzialità del mezzo televisivo. Ma poco aveva capito anche la radio, che, nonostante la retorica sulla Radio Balilla, si diffuse molto lentamente. Era un uomo dell’Ottocento, amava la folla presente, poco sapeva immaginare il futuro. Ma negare che, nonostante “Lui”, gli italiani ne fossero capaci, è sbagliato. Semplicemente sbagliato.

Come sbagliato è negare che la cultura sia stata parte di quel ventennio. <E tanto per dire di alcuni dei protagonisti dell’avventura vincente del fascismo – scrive giustamente Mughini -, Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Mario Sironi, Giuseppe Terragni, Margherita Sarfatti furono o non furono fra i protagonisti della cultura italiana del Novecento?>

Già, Margherita Sarfatti. L’autrice di Dux di cui Mughini tesse l’elogio. Che si chiude, però, con un post scriptum che mi ha stupito: <Dimenticavo. Nel 1938, all’avvento delle leggi razziali, il libro dell’ebrea Sarfatti (che nel frattempo se n’era andata negli Usa) venne ritirato dalla circolazione>.

Dispiace dover correggere l’ottimo Mughini. Ma sulla Sarfatti commette una svista non irrilevante. Che, in fondo, testimonia quanto ancora poco sia conosciuta Margherita. Vero è che i suoi libri, non solo Dux, furono nel 1938 ritirati dal commercio, come tutti i libri di autori ebrei. Non è invece vero che la Sarfatti <nel frattempo> si fosse trasferita in America. Nel novembre del 1938 espatriò a Parigi, poi si rifugiò in Uruguay e, infine, in Argentina.

Negli Stati Uniti era andata – per tre mesi – nel 1934. Provò a tornarci ma non vollero accoglierla. Nonostante nel 1937 avesse pubblicato L’America, ricerca della felicità, frutto di quel viaggio e del suo incontro con Roosevelt. Tornata in Italia la Sarfatti cercò inutilmente di convincere Mussolini a incontrare il presidente americano, nell’illusione di sottrarre il Dux all’abbraccio con Hitler. Anche questo libro, naturalmente, sparì dagli scaffali. E non fu mai pubblicato negli Stati Uniti.

Se Margherita Sarfatti fosse riuscita guardare la seconda guerra mondiale da New York non sarebbe certo cambiata la storia. Ma almeno un interrogativo su che cosa avrebbe potuto dire da lì la grande intellettuale veneziana ce lo possiamo porre. Magari ne sarebbe uscito qualcosa di più degli articoli argentini, poi raccolti in My Fault… Chissà.

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Per chi volesse conoscere meglio Margherita Sarfatti, a parte il mio contributo, segnalo almeno:

Philip V. Cannistraro, Brian R. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce; Simona Urso, Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano; Françoise Liffran, Margherita Sarfatti, L’égérie du Duce; Rachele Ferrario, Margherita Sarfatti. La regina dell’arte nell’Italia fascista; Claudio Siniscalchi, Novecento. Fascismo, America e arte in Margherita Sarfatti; Brian R. Sullivan, Introduction, in Margherita G. Sarfatti, My Fault. Mussolini As I Knew Him.

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