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La nazione della destra. Ma quale?

Febbraio 11, 20230

La questione della nazione non è solo italiana. Storicamente non appartiene solo alla destra politico-culturale. Così come il concetto di patria. Le interpretazioni solo tante, diverse tra loro e non marginalmente. Alessandro Campi, frequenta il tema dai tempi del suo Nazione (il Mulino, 2004) e ha continuato a frequentarlo con assiduità. Ci torna, ora, prestando particolare attenzione alla svolta politica determinata dalle elezioni italiane del 2022, che hanno visto tornare al governo una coalizione di centrodestra, ma con equilibri interni ben diversi dal passato. Secondo Campi, con la netta vittoria elettorale di Fratelli d’Italia, ottenuta grazie all’appeal di un leader capace, donna e giovane come Giorgia Meloni, il tema di intendersi sul significato che si vuole attribuire al nazionalismo, al patriottismo e, infine, all’ancor più equivoca definizione di sovranismo, è fatalmente tornato da estrema attualità.

D’altra parte, se le destre, come amava ricordare Prezzolini, possono essere tre, trentatrè e persino trecentotre –  non a caso preferiva definirsi conservatore – appare necessario comprendere a quale accezione, tra le tante possibili, s’intende riferirsi e quindi quale proporre agli italiani. Altrimenti si perpetua il rischio di dialogare tra sordi. Un rischio accresciuto, nel presente, dal nuovo grave scenario – mondiale, ma innanzitutto europeo – apertosi con l’aggressione militare di una Russia autocratica e neo-imperialista contro una Ucraina che, liberatasi dall’imperialismo sovietico, combatte una guerra difensiva rivendicando il proprio assoluto diritto patriottico alla autodeterminazione. Nei fatti un ritorno, non solo al Novecento, ma a questioni che sembravano in gran parte ormai confinate al dibattito ottocentesco, con la progressiva decadenza degli imperi multinazionali e multiculturali.

Temi che ci interessano da vicino, come italiani, che ci hanno visto protagonisti con l’affermazione politica e culturale del diritto all’unità di un popolo che fino al Risorgimento italiano era stato solo sotto il profilo letterario-intellettuale. Un profilo che riguardava tuttavia solo le classi colte, senza comprendere neppure quelle benestanti. Una cosa per Dante e Petrarca, insomma. O, tutt’al più, per il fiorentino seicentesco Vincenzo da Filicaja. Tornano alla mente i suoi versi: «Italia, Italia, o tu cui feo la sorte /Dono infelice di bellezza, ond’ hai / Funesta dote d’infiniti guai / Che in fronte scritti per gran doglia porte; / Deh fossi tu men bella, o almen più forte, / Onde assai più ti paventasse, o assai / T’amasse men chi del tuo bello ai rai / Par che si strugga, e pur ti sfida a morte! /Che or giù dall’Alpi non vedrei torrenti / Scender d’armati, né di sangue tinta / Bever l’onda del Po gallici armenti; / Né te vedrei, del non tuo ferro cinta, / Pugnar col braccio di straniere genti, / Per servir sempre o vincitrice o vinta».

Dopo decenni di oblio, causato anche dall’abuso fattone dal fascismo, una sorta di nazional-patriottismo sembra oggi ritrovare spazio nel dibattito pubblico italiano, persino nella sfera sentimentale, per quanto, suggerisce Campi, nella declinazione del patriottismo della paura emerso durante il biennio pandemico. Quando molti hanno compreso il ruolo sociale della compattezza e della solidarietà, accantonando la retorica illusoria di salvifico globalismo cosmopolita.

Tuttavia resta aperta la questione di quale sostanza culturale profonda si nutra il neo nazional-patriottismo nella sua forma politica di destra. La storia ne comprende, semplificando, almeno due versioni politiche. Per quanto ci riguarda, nell’Ottocento dell’Unità, completata con la Grande Guerra, «l’idea di nazione è stata quella liberal-conservatrice» che «Sulla scorta degli insegnamenti di Mazzini, integrati tuttavia di massicce dosi di realismo, portava con sé un’idea della politica intesa come dovere civile, tensione ideale e sforzo collettivo e considerava l’indipendenza italiana come una sorta di ineludibile traguardo storico». Un’idea tramontata sul finire del secolo, trasfigurata in un nazionalismo etnico e imperialistico. Non la Grande Italia sognata dall’irredentismo che avrebbe voluto accogliere nei medesimi confini tutti gli italofoni dispersi, dalla costa adriatica alla Corsica, dal Ticino a Malta, per non dire della Nizza perduta. Ma una nazione guerriera capace di competere sul piano internazionale per un ruolo di Grande Potenza, nel quadro del processo di modernizzazione reso possibile dall’accelerazione dello sviluppo tecnologico ed economico. Una prospettiva che avrebbe dovuto sostituire all’equilibrio e al rispetto tra nazioni storico-culturali indipendenti ed uguali una gerarchia tra esse.

Gran parte del nazionalismo novecentesco ebbe questa impostazione teorica, confluendo poi – in Italia – nel regime mussoliniano, anche grazie al rovesciamento del rapporto Stato-Nazione teorizzato dall’idealismo gentiliano. Non la nazione che crea lo Stato per servirsene, bensì la nazione esistente solo in quanto creata da uno Stato inanimato, al di là e al di sopra della cultura profonda del popolo e dei cittadini, trasformati in suoi meri strumenti.

La complessità della questione, come si è detto, non riguarda solo la storia italiana, né il fascismo in sé, come è ben evidenziato da Campi. Che tuttavia, nell’attuale situazione politica, la pone come questione aperta, consapevole che la destra italiana a lungo «è stata nazionalista più sul piano del linguaggio che su quello concretamente politico; ha cioè sviluppato una visione della nazione intrisa di retorica e sentimentalismo ma assai poco concreta e fattuale. Non solo, ma in molte sue espressioni politico-dottrinarie […] essa non ha riservato alcuna particolare attenzione alla nazione come formula (o forma) politica e come fattore politico-ideologico aggregante».

Campi suggerisce, in fondo, che la nuova fase politica italiana è una opportunità. Potrebbe alimentare, finalmente, una riflessione positiva su quale delle destre si vuole essere, senza «sottovalutare la capacità della nazione di operare come formula d’integrazione collettiva, tanto più necessaria in un contesto storico come quello attuale nel quale, a furia di esaltare l’eterogeneità, la differenza, il riconoscimento di ogni forma di soggettività e particolarismo, secondo una logica che va oltre il classico principio di tolleranza, si rischia di favorire la disgregazione del tessuto sociale, oltre a una crescente conflittualità, e, in prospettiva, si mette a repentaglio la tenuta stessa di qualunque forma di ordine civile».

Evocare il rischio non è frutto di pessimismo, piuttosto di positivo realismo. Si tratterebbe di riannodare i fili di una storia travagliata. Provarci è una scommessa per la classe politica, ma anche per gli intellettuali. Cominciando a scegliere chiaramente quale destra si vuol essere e, ancor prima, quale idea di nazione rappresentare. Magari rileggendo Mazzini. O il Renan del plebiscito quotidiano. La nazione Italia potrebbe, forse, cessare di essere un fantasma.

Alessandro Campi, Il fantasma della nazione. Per una critica del sovranismo, Marsilio, Venezia 2023

 

 

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