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Lidia Poët e la fiction “scandalosa”

Febbraio 25, 20230

Probabilmente non avrei mai visto su Netflix la serie La legge di Lidia Poët, se Aldo Grasso non ne avesse parlato male sul “Corriere”. Non proprio una stroncatura, ma ci è andato vicino. Fin dal titolo: Rivive Lidia Poët. Non basta il fascino di Matilda De Angelis (22 febbraio). In sostanza salva solo la protagonista, che oggettivamente è molto brava. Ma a Grasso è l’impostazione della fiction che non piace. E scrive: “Che azzardo! Prendere una storia vera di fine ’800, con risvolti sociali non indifferenti, e far recitare gli attori come se si trovassero ai nostri giorni, mettendo in bocca alla protagonista frasi e interiezioni della contemporaneità. Sono quelle operazioni di straniamento che, se riuscite, possono sfiorare il sublime. Nel caso contrario, si lambisce il ridicolo”. Belle le ambientazioni torinesi, belli i costumi di “rara fattura”, belli i giochi di luce. Ma “manca la scrittura”. E se in una fiction, come in un film, manca la scrittura, che cosa ne resta?

Allora mi è venuta voglia di verificare. Anche perché di Lidia Poët sapevo veramente poco. Certo, potevo leggere i due libri biografici usciti su di lei. Che, però, forse non sarebbero mai usciti se la fiction non fosse stata in cantiere. Comunque non avrebbero avuto nessun risalto, pubblicati da valorose ma piccole case editrici. Per chi volesse, si tratta di Lidia Poët. La prima avvocata di Ilaria Iannuzzi e Pasquale Tammaro (Le Lucerne) e di Lidia Poët. Vita e battaglie della prima avvocata italiana pioniera dell’emancipazione femminile di Cristina Ricci (Graphot). Entrambi pubblicati nel 2022 e ora muniti di fascette che assicurano di proporre la “vera storia” della prima avvocata italiana.

Già, Lidia Poët. Chi era costei? Piemontese, valdese, nata nel 1855 e morta nel 1949, fu realmente la prima donna italiana che ottenne di iscriversi all’ordine degli avvocati, a Torino, nel 1883. L’Italia era unita. Era governata dalla Sinistra storica di Agostino Depretis. Ed era bigotta. Le donne dovevano stare al posto loro. Quello deciso per loro dagli uomini. Lidia si era laureata in legge, aveva chiesto di iscriversi all’albo ed esercitare la professione. Nessuna legge lo proibiva. Quindi fu iscritta. Ma il pregiudizio maschile vinse. Gli avvocati ricorsero. Fu espulsa. Ricorse anche lei, ma le dettero torto. Avvocata per pochi mesi, tornò ad esserlo 37 anni dopo, nel 1920. Un anno prima, sotto il governo Nitti, fu varata una legge che espressamente ammetteva le donne a tutti gli uffici pubblici, salvo la magistratura e i ruoli militari.

Certo, di questa storia, che tanto dice di come sia stato così difficile diventare moderni, e di quanto le donne hanno faticato per ottenere la parità civile, si poteva fare un bel documentario. Un docu-film, come si dice ora. Magari sarebbe stato più preciso, più attinente alla verità storica e alla personalità di Lidia. Ma i docu-film non sempre funzionano. Me ne viene in mente uno messo in onda dalla Rai qualche settimana fa, Quei due. Dove i due sono Galeazzo ed Edda Ciano. Costruito con dialoghi tra due attori, Silvia D’Amico e Simone Liberati. Dialoghi surreali, tratti in gran parte dal diario di Ciano, coperti da filmanti d’epoca. Se lo scopo era mettere in luce le personalità della figlia e del genero di Mussolini, non è stato raggiunto. Quello di annoiare senza aggiungere nulla al già noto si. Mancava la scrittura, direbbe il critico televisivo.

È stata scelta, per Lidia, un’altra strada, quella della finzione sullo sfondo di una verità. Sullo sfondo, perché è evidente che la Lidia di Netflix non è quella vera. È una giovane spregiudicata, che in effetti si esprime come, forse, si esprimerebbe una contemporanea. Nel linguaggio, nei modi, nelle relazioni. Non è una giovane donna dell’ultimo quarto dell’Ottocento. Ottocentesco è il contorno, non lei. Per questo un paio di lontani discendenti hanno obiettato. Una pronipote ha parlato di “stravolgimento”. Un pronipote ha detto: “io l’ho conosciuta quando avevo 7 anni a Diano Marina, ma me ne hanno sempre parlato come di una donna serissima, dedita soltanto allo studio, elegante e riservatissima”. Non la ragazza, per dirla alla Grasso, che nella fiction appare molto “sesso ardito e parolacce”. Anche se non è che l’Ottocento fosse privo di sesso e parolacce.

Certo, l’impianto è sopra le righe. A me ha ricordato un po’ il film Enola Holmes, tratto nel 2020 dai romanzi di Nancy Springer, che ha inventato la sorella piccola di Sherlock Holmes. Una favola. Ma godibile. Come La legge di Lidia Poët. Un romanzo televisivo che sta avendo un grande successo proprio perché tale. Si fa guardare. Intriga. I tempi sono giusti. Gli attori anche. Con Matilda De Angelis ricordo Eduardo Scarpetta e Pier Luigi Pasino.

La vera Lidia è stata “tradita”? Probabilmente in parte sì. Ma un serioso – “scientifico” – docu-film avrebbe riportato alla luce la sua vicenda, al di là del circolo dei cultori della storia sociale e di genere? Se ne può discutere. Io penso di no. La fiction, a suo modo, e con gli stilemi della fiction, accende un faro su un mondo che fu. In fondo, se quel mondo bigotto non c’è più, lo si deve anche alle battaglie combattute da donne come lei. Con la tenacia e i modi di quel tempo. Non trovo così grave – né ridicolo – che, per piacere oggi, si sia adottato il linguaggio di oggi.

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