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Gli italiani vittime di Stalin

Marzo 8, 20230

Chi se lo ricorda Saro Urzì, attore, catanese del 1913, scomparso nel 1979? Novantatre film in carriera. Il primo, Il sogno di Butterfly, di Carmine Gallone, nel 1939. L’ultimo Giovannino, di Paolo Nuzzi, nel 1976. In mezzo, nel 1965, Il compagno don Camillo, di Luigi Comencini. Il film che chiude la serie di Don Camillo e Peppone, tratta dal romanzo del grande Giovannino Guareschi.

Ve lo ricordate il Brusco, cioè Saro Urzì? Era l’uomo di fiducia, comunista di ferro, di Peppone sindaco di Brescello. Talmente di fiducia che – in un clima da guerra fredda, lo accompagna nel viaggio in Unione Sovietica. Insieme a don Camillo-Fernandel col colbacco. Comunista, il Brusco, ma alla partenza ha promesso alla madre di accendere un cero sulla tomba del fratello caduto in guerra. Il luogo della sepoltura viene individuato, in un villaggio dove il prete locale deve vivere senza dir messa e la sua chiesa è ormai un granaio (Nella foto in evidenza don Camillo e il Brusco pregano sulla tomba). Il fratello del Brusco quella sciagurata guerra l’aveva fatta con la divisa dell’Armir. Un onta, per chi, all’epoca, da italiano comunista, sperava nella vittoria dell’Unione Sovietica di Stalin. Una disfatta italiana. Morirono in molti, pochi tornarono. Tanti furono fatti prigionieri.

Potremmo cominciare da qui, per parlare di questo libro curato da Francesco Bigazzi: Il libro nero degli italiani nei gulag (LEG Edizioni, Gorizia). Potremmo rievocare la questione sorta trent’anni fa, con la pubblicazione di una lettera inviata da Palmiro Togliatti al dirigente comunista Vincenzo Bianco, che gli aveva chiesto – nel febbraio del 1943, di intervenire per far rientrare in Italia i prigionieri. Fu un caso, perché all’epoca la lettera fu parzialmente manipolata, per far apparire Togliatti più “cattivo” di quel che era stato. Non ce n’era bisogno, in realtà. Il cittadino sovietico Togliatti, membro della commissione imitare del Cominform, scrisse: <La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso la Unione Sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché. Non c’è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantista del fascismo. Non nella stessa misura che il popolo tedesco, ma in misura considerevole. Il veleno è penetrato tra i contadini, tra gli operai, non parliamo della piccola borghesia e degli intellettuali. È penetrato nel popolo, insomma. Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti. Quanto più largamente penetrerà nel popolo la convinzione che aggressione contro altri Paesi significa rovina e morte per il proprio, significa rovina e morte per ogni cittadino individualmente preso, tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia>. Insomma, quei prigionieri potevano aspettare.

Si poteva cominciare da qui, grazie al saggio di Giovanni Di Girolamo su “I soldati dell’ARMIR nei campi di prigionia sovietici”, argomento delicato, affrontato per decenni con molta reticenza. Ma il libro è molto altro. Bigazzi si chiede, introducendolo, <Quante sono state le vittime italiane delle repressioni staliniane in Unione Sovietica>.  In realtà una risposta esatta ancora manca. Anche se in appendice è pubblicato un elenco aggiornato di persone. Che non sono solo le vittime della guerra voluta da Mussolini.
Il volume vuole raccontare una vicenda più ampia, che riguarda la storia di comunisti, antifascisti ed emigrati italiani che, attratti dal mito dei Soviet, sono scomparsi nell’Arcipelago Gulag. Ricostruisce, infatti, anche il destino degli italiani di Crimea, che, da secoli erano naturalizzati in Russia, e all’improvviso scoprirono di essere il nemico pubblico numero uno dell’URSS. In un volume a più mani, se ne occupa, con dovizia di particolari, Stefano Mensurati.

Dario Fertilio scrive degli “Italiani nel sistema concentrazionario sovietico”. Ugo Intini, che da tempo si occupa del tema, svela “L’imbarazzo del Pci e le reticenze mai superate”. Aldo G. Ricci spiega “Come Mussolini sorvegliava l’emigrazione politica”. Elena Parkhomenko ricostruisce come operavano “Le spie del PCI nel PSI e nella concentrazione antifascista a Parigi”. Fiorenzo Reati si occupa della “Persecuzione del clero cattolico in URSS”. Infine, va letto il monito di Anatoli Razumov, che dà un nome, una ad una, alle vittime delle repressioni comuniste con il saggio “Il cimitero Memorial ‘Levashovo’ di San Pietroburgo: proibito dimenticare”.

Un libro importante, dunque. Forse pubblicato con un titolo sbagliato. Di libri “neri”, limitandosi ai saggi, ce ne sono un’infinità. Libro nero del comunismo, del capitalismo, dei regimi islamici, degli Stati Uniti, del genocidio nazista… Un titolo abusato, dunque, che ormai suona retorico, a dispetto, in questo caso, del pregevole contenuto. Forse Le vittime italiane di Stalin sarebbe stato migliore. Per dirne uno.

Francesco Bigazzi (a cura di), Il libro nero degli italiani nei gulag, LEG Edizioni, Gorizia 2022

 

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