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“Il mare, si vede il mare!”

Marzo 30, 20230

Qualche anno fa, a Viterbo, nella sala di lettura della Biblioteca comunale degli Ardenti, sfogliavo, purtroppo in fotocopia, le pagine del settimanale cattolico “Il Padre di Famiglia”. Arrivato all’11 aprile 1875, vedo un trafiletto in cui si dà conto della costituzione di un Comitato per gli ospizi marini, presieduto dal sindaco Giacomo Lomellini d’Aragona. Tra i consiglieri noto il nome di Filippo Petroselli. Mi incuriosì. Perché si trattava del nonno di mio nonno.

Viterbo era diventata Italiana da neppure quattro anni, il 12 settembre 1870. Solo nel maggio del 1876 fu visitata da Garibaldi. Ma di che cosa mai si occupava quel Comitato? E perché si parlava di “ospizi” e non di “colonie”? A pensarci oggi vengono i brividi. Non se ne ha memoria. Si occupava dei bambini poveri – ed erano tanti – malati di scrofolosi. E anche della scrofolosi non abbiamo memoria, se non siamo medici. Si tratta di una linfadenite di natura tubercolare, che colpisce soprattutto i bambini malnutriti che vivono in condizioni poco igieniche. Praticamente, quasi una tubercolosi. Oggi si cura con gli antibiotici. Ma nel 1875 gli antibiotici non esistevano. Si dovrà attendere la penicillina scoperta da Fleming nel 1928. Allora i bambini scrofolosi si curavano con l’elioterapia e i bagni di mare. Il Comitato viterbese – leggo in quel giornale – raccoglieva offerte per finanziare il soggiorno terapeutico. I bambini viterbesi venivano inviati soprattutto in un “ospizio” di Fano, nelle Marche. Magari, un giorno, farò una ricerca. Ma non ho molti dubbi sul fatto che il mio avo, viterbese ma di origine marchigiana, li mandava a Fano in un ospizio consigliato dal vescovo di Loreto e Recanati, Tommaso Gallucci, che era suo zio.

Dettagli. Che mi sono tornati in mente grazie a Stefano Pivato, storico di cose apparentemente “minori”, ma in realtà fondamentali per capire da dove veniamo, e quanto quel passato non poi così lontano – appena, a oggi, sei/sette generazioni – ha pesato sull’Italia del Novecento. Dunque Pivato ha pubblicato questo Andar per colonie estive (il Mulino, 2023), che si apre – molto opportunamente – proprio con gli ospizi e la scrofolosi. Ospizi che lentamente si moltiplicano. <All’inizio del Novecento – assicura – sono circa cinquanta gli ospizi su tutto il territorio nazionale e decine di migliaia i bambini curati>. Gli ospizi, spiegava nel 1873 il medico piemontese Ruggero Ugolini, sono <utilissimi negli scrofolosi, nei rachitici, nei convalescenti di febbri tifoidee, nelle donne che hanno pochi globetti rossi…>. Quasi una panacea. In parte illusoria.

Poi verranno le colonie. Che avranno, con il fascismo, una missione sanitaria, ma anche educativa. Si potrebbe parlare di nazionalizzazione dell’infanzia. Accadde, in realtà, in quasi tutte le dittature novecentesche, anche in quelle che sono durate molto di più del fascismo. Ma, prima, c’erano gli ospizi. E anche lì alla cura si affiancava l’educazione, rigorosamente cattolica. Almeno per i piccoli malati viterbesi.

In fondo, nulla cambia in modo radicale tra Ottocento e Novecento. La svolta, comunque, arriva con le colonie. Marine, montane, persino fluviali. Non sono solo delle organizzazioni del regime. Anche le grandi industrie fanno la loro parte, con 12mila bambini ospitati nel 1937. Per dirne una, la Olivetti creò a Marina di Castagneto Carducci, nel 1931, la colonia “Alberto Lodolo”. Oggi è un resort, che ha conservato la struttura architettonica originale. Non è l’unico derivante da una colonia. Ma molte sono ormai da tempo abbandonate. Ben superiori i numeri delle strutture pubbliche. I bambini assistiti furono 80mila nel 1927, 772mila nel 1938, oltre 940mila nel 1942, con 5.805 colonie operative. Nel 1939, ricorda Pivato, in Francia le colonies des vacances ospitavano 200mila bambini. Questo per dire che le colonie sono una caratteristica nel Novecento, non delle dittature.

Dedurne che il fascismo era migliore sarebbe un’idiozia. In una dittatura è semplicemente più facile attuare un progetto. Il che non la fa preferire a una democrazia. D’altra parte l’educazione dei bambini e degli adolescenti, a prescindere dal profilo sanitario, si è sviluppata trasversalmente alle culture. Si pensi ai salesiani, o allo scoutismo di Baden-Powell.

Per restare all’Italia, alcuni ospizi sanitari continuano a operare, ma il regime – nota Pivato – <si impegna soprattutto nella costruzione degli edifici destinati ad accogliere i fanciulli in età compresa fra i 6 e i 13 anni per periodi che solitamente si prolungano fino a un mese>. Così <la socialità della colonia assume caratteristiche del tutto particolari per l’importanza che la dittatura fascista attribuisce all’educazione. Nella formazione dell’italiano “nuovo” la colonia estiva costituisce il prolungamento della formazione scolastica>. È una formazione di tipo paramilitare, naturalmente, a cominciare dall’alzabandiera che apriva la giornata.

Tutto finisce nel 1945? Non è vero. Anche se molte colonie sono state distrutte dai bombardamenti e altre adibite a luoghi di prigionia, prima per gli alleati, poi per tedeschi e italiani repubblicani. Ma, in una Italia devastata dalla guerra, <l’assistenza all’infanzia diventa uno dei compiti primari dell’associazionismo religioso e di quello laico>. Ci pensa anche l’Unione Donne Italiane del PCI a organizzare i “treni della felicità”, e con l’Anpi allestisce le prime colonie estive. Ma la Pontificia opera di assistenza prevale largamente, con 995 colonie nel 1946, e 256mila bambini. A metà degli anni Cinquanta saranno un milione e ottocentomila.

In partenza per la colonia Fiat, 1966

Tutto cambia, in realtà, con il boom economico, sia pure non repentinamente. Ancora negli anni Sessanta si andava in colonia. Pubblica, o privata, grazie alle grandi aziende. Stefano Pivato ci guida a ritroso in un mondo che non c’è più. Con un libro che è storia sociale, culturale e politica, ma anche dell’architettura. Perché negli anni Trenta i razionalisti ebbero modo di sbizzarrirsi, creando opere di notevole pregio.
Lasciarsi accompagnare in questo viaggio tutt’altro che banale ci aiuta a capire. Come gli ospizi, le colonie sono state parte di quel tempo. Lasciando da parte per un attimo il ventennio dei Balilla, a capire quel mezzo secolo e più d’Italia, ci aiutano i versi del cantautore bergamasco Luciano Ravasio, fine anni Cinquanta: <Il mare quando l’ho visto la prima volta / è stato ad andare in colonia a Riccione; / partivamo con le nostre valige di cartone, / i numeri al corredo e addosso una gran malinconia… / Dopo una notte a trattenere le lacrime sul treno / è apparso là in fondo all’orizzonte: / “Il mare, si vede il mare!” si confonde con il cielo / ma è più blu, più grande, più vagabondo>. 
In un saggio agile quanto accurato, c’è anche la paura dei bambini, mista a felicità.

Un dubbio mi resta su Fano. La sua colonia “Regina Elena” è troppo grande per essere nata sulle fondamenta del povero ospizio degli scrofolosi viterbesi del 1875. Chissà.

Stefano Pivato, Andar per colonie estive, il Mulino, Bologna 2023

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