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Epitaffio per un amico

Maggio 12, 20230

Lo so, può sembrare melenso. È che comincio a sentirmi un sopravvissuto. In pochi giorni se ne sono andati alcuni amici, anche più giovani di me, o coetanei. Succede. La vita è così. Un attimo e finisce. Maledetti social, oggi ho scoperto che se n’è andato un altro. Un collega. Che non vedevo da tempo. Anche questo capita. Si chiamava Giuseppe Rigido, ma amava essere chiamato Pino. Come me, che allora preferivo essere chiamato solo Gianni piuttosto che Scipione, nome ingombrante, fin dagli appelli delle elementari. Lui firmava Pino Rigido, ma siglava g.r. Due g.r.? E diventai g.ro.

Questa storia può non interessare nessuno, a parte me. E infatti per me la scrivo. Giugno 1980. Stavo quasi per rinunciare al giornalismo. Cose scritte qua e là. Rivistine, giornaletti, persino una delle prime Tv private. Ma non ne venivo a capo. Poi, nel 1978, ero riuscito a entrare nella redazione del settimanale OP di Mino Pecorelli. Ero felice. Quello sarebbe stato il mio mestiere. Ma il 20 marzo del 1979 Pecorelli viene assassinato. Uno shock. Pecorelli, al quale devo molto, era il direttore e l’editore. OP finì con lui. A noi redattori restò lo stigma degli appestati. Provai a bussare ad altre porte. Ma erano chiuse, blindate.

Passano i mesi. Le speranze si affievoliscono. Poi capita che un collega del “Secolo d’Italia” – Renato Bianda, e anche lui se n’è andato – mi dice che cercavano un “cambio ferie”. Eccomi, risposi, senza pensarci un minuto. Via Milano. Mi accolse la splendida, signorile, gentilissima segretaria factotum Mirella Di Poce, e anche lei non c’è più. Mi portò dal direttore, Nino Tripodi. “Lei s’intende di tipografia?”. “Sì”. Un po’ era vero. E cominciò. In redazione conobbi Pino Rigido. Tarantino, ma romano d’adozione e romanista. Sfegatato. Si occupava di esteri e di sport. Ed era il sindacalista del giornale. Da lui ho imparato anche il sindacalismo. Ma, soprattutto, la dedizione al lavoro e la “cucina”.

Apparentemente chiuso e solitario, aveva una disponibilità senza pari. Se avevi un dubbio, lui c’era. Sempre. Anche nei momenti più difficili. Un grande mediatore, in fondo. Persino nei rapporti complessi con il caporedattore Cesare Mantovani, vero gestore del giornale. Per anni abbiamo condiviso quella stanza sgarrupata. “Pino, fumiamo?” Era la litania perpetua di Cesare, convinto di non essere un fumatore. E Pino tirava fuori le Marlboro rosse, senza fare una piega. Con tolleranza. Pino era quasi l’unico al quale Cesare  dava del tu. Se – cosa rara – non era in stanza, il rito cambiava: “Rossi, fumiamo?” Io ero meno tollerante. Ma, in fondo, Pino aveva ragione. Perché era capace di capire le persone, oltre a essere un bravo giornalista, che avrebbe meritato di più nella vita professionale. Ma in realtà quel di più non gli interessa davvero. Quello era il suo mondo, il suo modo di essere, la sua vita.

Come altri colleghi, io lasciai il giornale. Lui rimase, sempre. Ad accogliere nuovi “cambi ferie”, ai quali indicare la via. La sua generosità era infinita, anche se mimetizzata dietro una maschera burbera.

Potrei raccontarne tante. Ma oggi mi è tornato in mente un episodio. 11 agosto 1980. A Fiumicino sbarca Falcao. Lo accolgono migliaia di tifosi romanisti. Il 2 agosto c’era stata la strage di Bologna. A me la festa sembrò una cosa senza senso. In un clima plumbeo, da tragedia, come si può perdere tempo ad acclamare un calciatore? Discutiamo. Quasi litighiamo. “Ma dai, Pino, che ci frega di Falcao!? Ti rendi conto di che cosa accade in Italia!?” Alla fine, ne escono due pezzi. Li ho riletti. Li pubblico perché è un onore aver firmato accanto a lui. Pino scriveva meglio di me. E mi viene il dubbio che anche su Falcao avesse ragione.

Ciao, amico mio.

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