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Dolori, pubblici e privati

Maggio 10, 20230

Riepilogo. La scrittrice Michela Murgia, intervistata da Aldo Cazzullo, comunica che è malata di tumore al quarto stadio, inguaribile. Dunque ha davanti a sé “mesi di vita”. Ma che spera di morire solo dopo la caduta dell’attuale governo fascista guidato da Giorgia Meloni. Cazzullo obietta che quello in carica non è un governo fascista. Lei ne è però convintissima. E la cosa finisce lì.

La Murgia dice anche che si sposerà ma solo per ragioni pratiche, e che continuerà a vivere, in questi mesi, nella sua famiglia “queer”, cioè allargata, senza ruoli predefiniti. Ora, di quel che scrive e dice Michela Murgia condivido credo solo i sostantivi. Ma certo non mi auguro la sua morte. Anzi, mi auguro, come tutti, credo, che la diagnosi sia sbagliata e possa vivere ancora per lunghissimi anni, non mesi. In primis perché lo auguro a chiunque. Ma anche perché mi verrebbe a mancare il poter dissentire radicalmente da lei, sia pure privatamente.

Ho letto quell’intervista e la mia reazione è stata duplice. Da un lato il dispiacere umano e il rispetto per il coraggio. Dall’altro una perplessa sorpresa. Tutti dobbiamo fare i conti con la morte. Persone a noi care hanno sofferto per mesi, talvolta per anni, consapevoli di avere davanti – più dei viventi sani – un tempo limitato quanto incerto. Ma sono persone normali, che non comunicano pubblicamente di essere malati. Già con i parenti e gli amici stretti ne parlano malvolentieri, come se fossero pervasi dal pudore della morte.

Quando sarà, non so come mi comporterò. Oggi penso con pudicizia. Forse cambierò idea. Non si sa mai. È possibile che l’avvicinarsi della fine terrena modifichi il carattere. Non posso escluderlo. Ma certo l’annuncio pubblico della Murgia non mi sento di condividerlo. Lo ha detto. Era inevitabile che se ne parlasse tanto, essendo una persona pubblica. Può darsi che lo abbia fatto per esorcizzare l’idea della morte. Per liberarsi di un peso. Ma, esperta di comunicazione, non poteva immaginare che la notizia non si diffondesse a macchia d’olio, ovviamente provocando l’unico commento  pubblicamente possibile, cioè gli auguri di guarigione. O, almeno, di poter vivere molto più a lungo di pochi mesi. Era scontato. Chi mai avrebbe potuto pubblicamente reagire con un chissenefrega?

Dopo giorni di sovraesposizione, credevo comunque che si sarebbe appartata dalle scene. Invece scopro che a Milano, in teatro, è tornata in argomento con frasi quasi sibilline. “Vorrei ricordarvi – ha ironizzato – che le voci sulla mia morte sono grandemente esagerate. È il diciottesimo coccodrillo che leggo, di gente che comunque in vita mi ha anche molto odiato, sono turbata e non so come comportarmi: sto pensando che se non schiatto entro un mese è proprio maleducazione, perché si è creata una tale aspettativa… Ho detto che mi mancano dei mesi, probabilmente molti, e ho spiegato a cosa servono quei molti, quindi vorrei ribadirlo: sono viva, vivissima!”

Anche questo credo sia una modalità per esorcizzare. Però, francamente, un po’ inquieta. Anche per quel riferimento a chi l’avrebbe molto odiata. Non vorrei che stesse confondendo la critica con l’odio. La critica è sempre legittima. L’odio è riprovevole. Le auguro di cuore di vivere a lungo. Sinceramente. Ma, con rispetto, le auguro anche di non trasformare questi mesi, o anni, nella spettacolarizzazione del dolore. Anche chi l’ha sempre apprezzata potrebbe, alla fine, esserne deluso. Dall’elogio del coraggio alla noia ci vuole un attimo. Sia pure semi-occultata nelle rubriche delle lettere dei quotidiani, qualche riflessione perplessa già comincia a circolare.

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