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Quando le carte non parlano abbastanza

Marzo 23, 20230

Se un saggio s’intitola Il Gran Consiglio contro gli ebrei. 6-7 ottobre 1938: Mussolini, Balbo e il regime, se è pubblicato da il Mulino, se l’autore è un attento studioso della materia come Giorgio Fabre, ti aspetti grandi novità. Novità in grado di cambiare in modo significativo quel che sappiamo sulla genesi della Dichiarazione sulla razza varata, appunto, dall’organo politico di vertice del fascismo. Organo costituzionale. Quello che, cinque anni dopo, il 25-26 luglio 1943, con il suo voto favorevole all’ordine del giorno Grandi, decretò la fine del regime.

Ti aspetti, magari ingenuamente, che sia stato trovato il resoconto stenografico di quella seduta a Palazzo Venezia che durò, sembra, quasi cinque ore, terminando intorno alle 2 e 50 della notte. Te lo aspetti perché, in teoria, tutto è possibile. Quando il Gran Consiglio si riuniva era presente uno stenografo, in modo che poi si potesse stendere il comunicato finale. Il 25 luglio lo stenografo si chiamava Cuchelli, ma fu allontanato. Magari quel 6-7 ottobre poteva essere rimasto e del resoconto si sarebbe potuta trovare traccia. Di un verbale neppure a parlarne. Per il Gran Consiglio non era previsto, come ha spiegato Guido Melis (La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna 2018, p. 148).

Se si trovasse quella carta, forse riusciremmo a conoscere la verità su come i membri del Gran Consiglio si espressero su un documento che doveva ratificare politicamente la svolta razzista del fascismo e, dunque, dell’Italia. Forse. Ma la carta non è stata trovata. Resta l’elenco dei presenti. I quali, nella notte, tornarono a casa. A riporre la divisa d’ordinanza.

La svolta era cominciata già nel 1937, quando i giovani italiani ebrei non furono più ammessi alle scuole militari. Poi fu un crescendo. Il 14 luglio del 1938 uscì sul “Giornale d’Italia” il Manifesto della razza, ovvero, come fu titolato, Il fascismo e i problemi della razza. Il 5 settembre gli studenti ebrei furono per decreto cacciati dalle scuole. Il 18 settembre Mussolini annuncia a Trieste – in modo un po’ ambiguo – provvedimenti in arrivo. Poi convoca il Gran Consiglio. Che approva le linee guida dei provvedimenti antiebraici, che saranno poi tradotti in decreti e trasformati in leggi da Camera e Senato, senza problemi. Il resto, con le sue tragiche conseguenze, lo sappiamo. Sappiamo anche che la svolta non dipese da una pressione di Hitler su Mussolini, ma fu una autonoma quanto cinica scelta di Mussolini. Una scelta politica che è spiegabile, in quel torno di tempo. Spiegabile, non perdonabile.

Non sappiamo, invece, come andò il dibattito, perché in effetti un dibattito ci fu. Tutto è stato ricostruito da Renzo De Felice con la sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, pubblicata nel 1961 da Einaudi. Lo storico reatino aveva solo 32 anni. Eppure riuscì nell’impresa. La bibliografia successiva sulle leggi razziali è infinita, ma quel testo resta fondamentale. Paragonabile, come documentazione, è solo Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938 di Michele Sarfatti (Zamorani, 1994).

Non sappiamo del dibattito, dunque. Ed è un peccato. Perché, a cominciare da De Felice, dobbiamo accontentarci della testimonianza di alcuni dei presenti e delle voci che circolarono tra gli assenti, la cui attendibilità è, sul piano storico, molto dubbia. Per questo si è delusi dal mancato ritrovamento del resoconto, ammesso che sia mai esistito. Qualcosa, in realtà, Giorgio Fabre ha trovato, grazie all’acquisizione da parte dell’Archivio Centrale dello Stato delle carte private di Italo Balbo, all’epoca governatore della Libia e membro del Gran Consiglio. Prima, erano in possesso della famiglia Balbo, che consentì a De Felice di vedere e riprodurre solo due pagine delle sei del dattiloscritto ciclostilato che fu distribuito ai gerarchi come base di discussione. Una discussione che, forse, Mussolini pensava non fosse neppure necessaria, ma invece ci fu.

Fabre ha ora potuto consultare e riprodurre quattro versioni di quel testo: l’autografo, il ciclostilato, il provvisorio e il definitivo. E con certosina pazienza ha messo a confronto carte che presentano cancellazioni, modifiche, aggiunte. Nel caso del ciclostilato probabilmente attribuibili a Balbo. Non solo. Ha confrontato anche le versioni della Dichiarazione pubblicate il 7 ottobre dall’agenzia Stefani e da alcuni quotidiani: “La Stampa”, “Il Regime Fascista” di Farinacci, il “Corriere Padano” di Balbo, il “Corriere della Sera”, “Il Popolo d’Italia”, “Il Piccolo”, “Il Messaggero”. Versioni lievemente diverse. L’autore ne deduce, per esempio, che Farinacci e Balbo consegnarono immediatamente il dattiloscritto, mentre Mussolini ancora lo ritoccava, a loro giornalisti o segretari, e che alcune omissioni siano state “politicamente” indirizzate. È possibile. Ma andrebbe considerato che i testi sono stati probabilmente dettati telefonicamente in redazione, poi passati ai linotipisti. Quindi possono esserci stati errori banalmente materiali.

Ma non è questo il nodo principale. L’accurata analisi comparativa di Fabre ci dice che su alcune questioni il dibattito deve essere stato anche vivace. A cominciare dalla eliminazione – forse per mano dello stesso Mussolini – dell’incipit, che faceva espresso riferimento al Manifesto di luglio, che il Gran Consiglio avrebbe dovuto «far suo». Ma quel manifesto dava del razzismo una definizione puramente biologica, asserendo l’esistenza di una razza ariana, cui gli italiani apparterrebbero. Un’affermazione che sarebbe stata contestata al duce da Nicola Pende, che pure quel manifesto firmò.

Correzioni, tagli e integrazioni riguardano un po’ tutte le materie: la definizione di ebreo, le benemerenze che avrebbero esonerato alcuni ebrei, compresi i 210 titolari del brevetto della Marcia su Roma, il pensionamento dei dipendenti pubblici, il trattamento dei militari, per accontentare il Re, il divieto di matrimoni misti, l’espulsione degli ebrei stranieri, l’ipotesi di consentire una emigrazione ebraica in Etiopia.

Rileggere queste carte è agghiacciante. Ma è un bene che siano disponibili. Fabre non ne fa, tuttavia, e non potrebbe essere altrimenti, un’analisi conclusiva. Avanza ipotesi. Lavora di condizionali. Potrebbe… Se ne può dedurre… È lecito pensare… Insomma, le carte parlano, ma non abbastanza. Essenzialmente le certezze sono poche. Forse una sola: il dibattito ci fu. Anzi, due. «Appare chiaro quindi – nota Fabre – che Mussolini il 6 ottobre non seguì i nazisti (e tra l’altro neppure li incontrò) a proposito dell’antisemitismo». Dunque ne volle inventare uno tutto suo, anche per non entrare in conflitto con la Chiesa, in particolare sui matrimoni misti. Ma questa non è una novità. E gli esiti furono comunque tragici. In generale, dalla ricostruzione delle manipolazioni dell’originale, attribuite a singoli consiglieri per mera ipotesi, emerge un Mussolini incerto, ondivago, dubbioso, disponibile a mediare, correggersi, come se non sapesse realmente come disegnare nel concreto il suo razzismo teorico. Per paradosso, sembra emergere un Mussolini “umano” proprio mentre sta decidendo provvedimenti inumani.

Poi ci sono gli altri. Bottai, Federzoni, Acerbo, De Bono, ecc. Che parlarono. Ognuno, sembra, cambiando un dettaglio di proprio specifico interesse. Nessuno con il coraggio di dire di no all’impianto generale. Peraltro, avrebbero dovuto esporsi qualche mese prima. Dopo, parleranno i diari. I più critici sembra siano stati Bottai e Federzoni. Ma se lo dicono da soli. E Italo Balbo. Almeno nella vulgata. Fabre sostiene invece che la sua fama postuma di “fascista buono” perché non antisemita fu usurpata. Sembra verosimile che si preoccupò dei bambini a scuola, ma erano già stati espulsi, e del suo amico potestà Ravenna, ma non degli ebrei in quanto tali. Tanto meno di quelli libici. Mentre si batterà per ottenere una semi-cittadinanza per i mussulmani.

In realtà questo studio non cambia quello che già sappiamo dai diari di Ciano, Cianetti, Federzoni, Grandi, Acerbo e da altre memorie. Come sappiamo che, alla fine, tutti votarono, Balbo compreso. Fabre conosce tutto, o quasi, di quel che è circolato. Quasi. Perché, per esempio, non tiene conto di quanto il diplomatico Giovanni Scola Camerini assicura ad Attilio Tamaro: «Nella questione razziale prese con ardore una posizione contraria al governo: in un discorso nel Gran Consiglio giunse sino a ricordare a Bottai la mamma ebrea e a chiedere a Ciano se fosse proprio sicuro di non avere in sé nessuna eredità d’una nonna ebrea». Vero? Inventato? Una testimonianza come un’altra, resa tuttavia privatamente in morte di Balbo (Attilio Tamaro: il diario di un italiano, Soveria Mannelli 2021, p. 521, appunto 28 giugno 1940).

Fabre ammette che la sua ricerca non è conclusiva. Forse un piccolo passo. E rende sostanzialmente omaggio al giovane De Felice, curiosamente sottolineando – tuttavia – che nella edizione del 1993 della sua Storia avrebbe potuto correggere qualche imprecisione. Lo storico reatino sulle leggi razziali ha scritto per decenni e in quel tempo stava lavorando all’ultimo volume della biografia mussoliniana, rimasta incompiuta per la morte prematura, nel 1996.

C’è ancora molto da scoprire, da capire. La ricerca non finisce mai. Nell’attesa converrebbe evitare di definire «un personaggio piuttosto secondario» l’autore di un commento alla Dichiarazione apparso nell’ottobre del 1938 su “La Vita Italiana” di Giovanni Preziosi. Il “personaggio” firmava Maurizio Claremoris. Gli sfugge che si tratta dello pseudonimo del generale Emilio Canevari, futuro segretario generale dell’esercito della Rsi. Con lo pseudonimo collaborava abitualmente anche con il giornale di Farinacci. Gli sfugge, anche, che il Diario inedito (1943-1944) (Pontecorboli, Firenze 2019) di Federzoni, «pubblicato di recente» (p. 51) – i cosiddetti “celestini” -, pur provenendo da fonte diversa, è identico a quello da molti lustri conservato e consultabile presso l’archivio storico dell’Istituto della Enciclopedia Italiana.

Volendolo citare, si potrebbe anche evitare di non evidenziare (p. 240) che lo storico Gioacchino Volpe, pur con un ragionamento ellittico, ebbe l’onestà, pubblicando nel gennaio del 1939 la sua Storia del movimento fascista (ISPI, Milano, pp. 233-240), di scrivere che per le leggi razziali appena varate «un certo disagio e qualche reazione dell’opinione pubblica italiana non mancarono» e che «molti si chiesero se, per tenere un po’ indietro l’elemento ebraico, certo invadente e assorbente, fosse necessario metter in piedi quella grossa costruzione teoretica di incerto valore scientifico e mal rispondente a tradizionali concezioni storiche italiane. Ci si ricordò che l’antico irredentismo triestino aveva avuto tra gli ebrei molti assertori, anche col loro sangue». «Un altro segreto timore – scrisse – era questo: che il fascismo potesse mettersi sulla scia del nazismo, in fatto di dottrina della razza, e smarrire così qualche tratto della originaria e schietta sua italianità».

In quel contesto avrebbe potuto dire di più? Forse. Ma disse pubblicamente e in una sede semi-ufficiale ciò che tanti intellettuali di rango e i membri del Gran Consiglio forse non dissero neppure tra le quattro mura di casa.

 

Giorgio Fabre, Il Gran Consiglio contro gli ebrei. 6-7 ottobre 1938: Mussolini, Balbo e il regime, il Mulino, Bologna 2023

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